Nuovo Gruppo Italiano Studi Implantari

Linee Guida

Implantologia Orale Endoossea

Lavoro approvato dal Direttivo NuovoGISI in data 28 Agosto 2018

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          IMPLANTOLOGIA A VITE 

La vite è il più utilizzato tra gli impianti endoossei. Si presta a risolvere le situazioni anatomiche più disparate, sia per quanto riguarda la conformazione del tessuto osseo che per quanto riguarda la densità.
Esistono impianti a vite di forma estremamente variabile. Alcuni si adattano meglio al tessuto osseo compatto ed altre al tessuto spugnoso, viti sommerse, non sommerse e viti emergenti (in un unico blocco di titanio). La gradazione del titanio con cui sono costruite influisce sull'elasticità e sulla robustezza dell'impianto, con vantaggi e svantaggi variabili in dipendenza delle diverse sedi anatomiche. Ulteriori distinzioni riguardano l'adattabilità ad essere utilizzate come impianti post-estrattivi e come impianti a carico immediato.
Forma dell'impianto
Le forme di impianto a vite che furono introdotte in Italia tra il 1960 e il 1980 seguivano i concetti della vite da legno, con volute pronunciate in confronto al nocciolo. Alcune viti emergenti presentate a quell’epoca, adeguatamente aggiornate, sono oggi ampiamente utilizzate. In epoca molto precoce furono presentati anche impianti “a cestello”.
In queste linee di impianti si ritrovano molti particolari che caratterizzano gli impianti presenti sul mercato.
Tra le varie forme di vite emergente ci sono differenze di passo, di conicità, di procedura. Alcuni autori propongono forme di impianto a vite che necessitano di una fresatura sottodimensionata in confronto alle volute e di calibro maggiore di quello del nocciolo, altri Autori sostengono la necessità di forzare l'impianto all'interno del tessuto osseo in un piccolo foro per aumentare la stabilità. Nel corso degli anni sono state sviluppate numerose nuove forme di impianto a vite emergente, innovative soprattutto per quanto concerne il profilo emergente ed il moncone che sono stati resi più adatti all’impiego anche nelle zone estetiche.
Negli anni ’80, La scuola svedese di Goteborg (54) sviluppò un disegno di vite del tipo da ferro, a passo fine e con volute poco pronunciate, prefiggendosi di trattare prevalentemente la sede anatomica del mento in pazienti edentuli selezionati per disponibilità ossea e condizioni generali di salute. Questi impianti erano basati sul principio del carico ritardato. Essendo più grossi degli impianti emergenti e costituito di titanio rigido, non sono adatti alle creste ossee sottili e alle zone ossee soggette a deformazione elastica. Da quell’epoca, numerose aziende hanno presentato una miriade di variazioni di forma e di interpretazioni della connessione protesica.
Nella scelta dell’impianto, alla valutazione su volume e morfologia della cresta ossea, si devono aggiungere le considerazioni sull’affidabilità del tessuto osseo in cui si intende ancorare l’impianto. Nel caso in cui la cresta ossea sia densa e sana, su può optare per un impianto dotato di volute anche nella zona coronale. Se invece, a parità di volumetria, il tessuto osseo superficiale è strutturalmente debole o è stato preda di infiammazioni recenti, è consigliabile utilizzare un impianto che si ancori all’apice, ma sia snello coronalmente, in modo da ridurre al minimo lo stress sul tessuto osseo superficiale e da favorirne la guarigione. Nel caso in cui la sede ossea debole sia in profondità, è consigliabile evitare di approfondirsi molto ed ancorare l’impianto, tramite le volute, più coronalmente.
Una via intermedia tra impianto emergente ed impianto sommerso è l’impianto “non sommerso”. Come struttura, si tratta di una variante dell’impianto sommerso, in cui la connessione protesica è portata leggermente sopra-gengiva.

Vantaggi degli Impianti a Vite
1. Rapidità di esecuzione chirurgica
2.Disponibilità di forme sommerse e non-sommerse utili a risolvere le più diverse conformazioni anatomiche.
3.Adattabilità agli alveoli post-estrattivi
4.Idoneità alle procedure rigenerative
5.Idoneità al carico immediato
6.Dimensione mesio-distale simile a quella degli elementi dentari, che consente di evitare l’invasione dello spazio adiacente.
7.Miglioramento del rapporto radice-corona rispetto a quello del dente preesistente in ragione dello sviluppo in profondità dell'impianto.
8.Risultato protesico.
 
Svantaggi degli Impianti a Vite
1.Scarsa adattabilità alle creste sottili, soprattutto nelle versioni sommerse
2.Poca versatilità nella correzione della posizione del moncone protesico

Aspetti biomeccanici
Come per ogni altro impianto, la condizione ideale si realizza quando sulla vite viene applicato un carico assiale. Per quanto ci si possa impegnare in questo senso nel programmare la protesi e nel gestirne gli aspetti occlusali, è tuttavia difficile eliminare in toto la componenti dislocanti.
Nei settori anteriori superiore ed inferiore, alcune componenti non assiali fanno parte della fisiologia dei movimenti dinamici della mandibola e sono ben tollerate in ragione del minimo sforzo che si esplica e della conformazione dei tessuti presenti in queste aree anatomiche, naturalmente strutturati per sopportare questo tipo di forze(22,75).
 Nei settori posteriori, in cui gli impianti sono sottoposti al carico intenso dell'occlusione centrica, la posizione assiale dell'impianto è particolarmente importante. Nel caso in cui l'impianto sia uno dei pilastri di una protesi fissa, il posizionamento degli impianti con moderate inclinazioni divergenti conferisce ancora maggior stabilità all'impianto-protesi (36,109).
Un dibattito sempre vivo riguarda il fatto se sia opportuno inserire, al posto di un molare, due impianti od un impianto di grosso calibro. L’impiego di un solo impianto di grosso calibro consente di avere un’emergenza protesica di ampiezza vicina a quella del molare preesistente e di ottenere un profilo protesico migliore. 
Il doppio impianto offre una maggiore area di ancoraggio osseo e una struttura più simile al dente naturale. Data la vicinanza dei due impianti, la gestione della chirurgia e della protesi è più impegnativa rispetto all’impianto singolo. 

Superfici
La varietà di superfici esistenti è notevole. Si va dalla superficie liscia ottenuta con procedure di levigatura estremamente evolute alla superficie rugosa ottenuta facendo aderire particelle di titanio alla superficie dell'impianto. Esistono rugosità ottenute tramite sabbiatura, mordenzatura, etc.
Il vantaggio che si ottiene con gli impianti rugosi nella guarigione ossea è controbilanciato dallo svantaggio della facile contaminazione della superficie in caso di recessione ossea. Esistono numerose linee di impianto che posseggono superfici lisce e rugose assieme, per ovviare a questo problema.
Sedi anatomiche
Gli impianti a vite sono adatti alla maggior parte delle sedi anatomiche. Il loro limite di utilizzazione è imposto dallo spessore della cresta ossea. Utilizzando la procedura con carico ritardato, esistono protocolli di rigenerazione ossea, innesto di tessuto e ampliamento della cresta che ovviano ai deficit anatomici.
La variabilità del tessuto osseo nei mascellari è ragguardevole e condiziona la scelta dell'impianto e della procedura di inserzione. Di norma, nel settore anteriore e laterale superiore edentulo si trova un tessuto osseo D2-D3, nelle tuberosità mascellari D4, nel settore laterale inferiore D2-D3, nel settore anteriore inferiore atrofico D1. Come accennato in precedenza, vi è notevole variabilità, naturale od anche anche legata ai processi di guarigione dei mascellari dopo estrazione.
Nel caso in cui si faccia un impianto subito dopo estrazione, la lamina dura residua, se conservata, offre un ancoraggio prezioso per ottenere la stabilità immediata dell'impianto.
Le differenze di densità incidono in modo determinante anche sulla tecnica chirurgica. Come sarà possibile osservare nella sezione ad essa dedicata, il calibro del foro di inserzione dell'impianto può avere sezioni diverse in dipendenza che ci si trovi a trattare osso D1 o D4.


Tecnica chirurgica

1. Incisione
Di norma, l'incisione della mucosa viene effettuata a centro cresta, in modo tale da garantire la presenza di un adeguato spessore di gengiva aderente attorno al moncone dell'impianto. Nel caso in cui si impieghi un impianto non sommerso od emergente, dall'incisione effettuata durante la fase chirurgica dipenderà il risultato finale dei tessuti molli che contorneranno il moncone dell'impianto.
In casi selezionati, è possibile evitare l'incisione chirurgica per ridurre lo stress ai tessuti, lavorando a cielo chiuso (tecnica “flapless”). Questa semplificazione può essere attuata solamente se vi è un’ampia banda di gengiva aderente. In alternativa all’assenza di incisione, si possono eseguire piccoli lembi (micro-flaps) che, delicatamente dislocati, permettono la penetrazione delle frese chirurgiche senza perdere gengiva aderente .

2.Trattamento della cresta ossea.
Dopo l'incisione, si procede a scoprire la cresta ossea con lo scollaperiostio per avere una chiara visione anatomica. Nel caso in cui la cresta sia sottile o si intenda attuare una procedura di espansione di cresta, lo scollamento deve essere  moderato per non sottrarre all'osso l'irrorazione periostale.

3.Alveolo Chirurgico
A. Foro superficiale
Messa in chiaro la cresta ossea, si procede ad attuare i passaggi utili a realizzare il foro chirurgico. La corticale superficiale è, di norma, consistente. È quindi necessario utilizzare una fresa adatta, a fessura o a pallina, in dipendenza delle preferenze. 
B. Prima fresatura
Eseguito questo primo passaggio, si procede ad approfondire il foro fino alla lunghezza prevista nello studio pre-operatorio radiografico ed, eventualmente, tomografico, con una fresa sottodimensionata rispetto al nocciolo dell'impianto. Nell'arcata superiore, un impianto ad ago od una fresa sottile liscia sono particolarmente adatti allo scopo, perché scendono lentamente all'interno delle strutture anatomiche andando a fermarsi in modo deciso quando impatta la corticale profonda. Nell'arcata inferiore, la presenza del nervo alveolare inferiore impone l'uso di una prima fresa che si fermi al di sopra del suo decorso, possibilmente provvista di uno stop, in modo da evitare la possibilità di ledere il nervo. È importante dotarsi di prolunghe per evitare che i denti adiacenti condizionino l’asse di inserzione della fresa.
Si esegue ora una radiografia per prendere la misura precisa della profondità di lavoro.

C. Foro definitivo e maschiatura
Se il tessuto osseo è denso, vengono utilizzate le frese previste dal sistema fino alla precisa realizzazione del foro, che dev’essere profondo almeno quanto l'impianto e, salvo eccezioni legate a tecniche particolari, di calibro superiore a quello del nocciolo. Nel caso in cui la vite che si inserirà abbia un diametro delle volute molto più ampio di quello del nocciolo, nell'osso denso l'ultimo passaggio di fresatura deve essere di calibro non molto inferiore a quello delle volute. Si rischia altrimenti che le volute del maschiatore e dell'impianto, durante la discesa nell'osso, impattino tessuto compatto ad una distanza dal centro di rotazione che non è stata percorsa dalla fresa, con il rischio di causare sequestri ossei da compressione. Se la maschiatura non è prevista, si rischia anche la torsione della vite, che la espone a frattura anche a distanza i tempo. Nel tessuto denso, la precisione dei passaggi di fresatura è particolarmente importante.
Nel tessuto osseo poco denso, è talora indicato procedere all'inserzione della vite subito dopo il primo passaggio di fresatura, per non perdere la poca stabilità primaria offerta dall'osso spugnoso. 
4.Inserzione dell'impianto
Stabilita la profondità di lavoro, si sceglie l'impianto della lunghezza adatta e lo si avvita in sede. Nelle zone estetiche, se si tratta di un impianto sommerso, il posizionamento del bordo coronale dell'impianto deve avvenire 4mm. al di sotto del bordo gengivale, in modo da consentire un corretto profilo emergente e da poter porre rimedio ai deficit di parallelismo utilizzando la componentistica del sistema. Se si tratta di un impianto emergente con moncone di grosso calibro il moncone protesico dovrà essere portato a chiudere il foro chirurgico e la preparazione per l’impronta sarà simile a quella che si esegue con i denti naturali.
Raggiunta la profondità prevista, è necessario avere la conferma radiografica che l'impianto sia nella posizione voluta. La radiografia va attentamente valutata, calcolando le eventuali distorsioni dovute alla difficoltà di ottenere una  proiezione corretta.  Nel caso in cui si siano, ad esempio, inseriti gli impianti in un mento atrofico, per apprezzarne bene la posizione e l’asse di inserzione è spesso utile fare un'ortopantomografia. Per eseguire una radiografia endorale ad un impianto inserito nel processo pterigoideo dello sfenoide bisogna puntare il tubo radiogeno vicino all'orecchio, e questo può comportare la presenza di sovrapposizioni ed ingrandimenti che vanno attentamente valutati.
Va anche detto che le immagini ottenute con diverse radiografie non sono mai uguali, ed il calcolo della proiezione fa parte dell'esperienza dell'implantologo e del medico legale. In ortopantomografia, ad esempio, gli impianti bicorticali posti in zona quarto-quinto superiore possono sembrar invadere il seno mascellare e la misconoscenza della possibilità che si tratti di un artefatto della tecnica può indurre in  errore.
Stabilita l'attendibilità della posizione dell'impianto, se la vite è sommersa, si può procedere ad inserire la vite tappo. Se si tratta di impianti a vite emergente in titanio grado 2, ci si deve preoccupare di correggere meccanicamente gli eventuali difetti di parallelismo, modificando con movimento unidirezionale la posizione del moncone, fino a quando questo non raggiunge la sede utile a facilitare l’esecuzione della protesi.
Si può quindi procedere a posizionare i materiali osteo-integratori eventualmente previsti, nel qual caso è consigliabile fare poi un'ulteriore radiografia. Infatti, il confronto a distanza di tempo dall'intervento va fatto avendo a disposizione sia la radiografia senza materiale che quella con il materiale.
5. Sutura
La sutura, preferibilmente a punti staccati, porta a conclusione l'intervento chirurgico. Se l'impianto è emergente o non-sommerso, i punti di sutura devono essere tali da garantire un buon sigillo attorno al moncone dell'impianto. Devono quindi essere addossati al moncone, mesialmente e distalmente. Se l'impianto è sommerso, i lembi possono essere chiusi anche sopra all'impianto, avendo però cura di ridurre al minimo la possibilità che la gengiva aderente scappi lateralmente lasciando l'impianto a sboccare in mucosa alveolare. Questa situazione porta infatti alla necessità di attuare una successiva correzione chirurgica dei tessuti molli.
6.Conclusione dell’intervento
Accertatosi che nessuna parte dell’impianto vada soggetta a traumi da parte di denti, strutture protesiche o tessuti molli, l'operatore può ora congedare il paziente, valutando l’opportunità di prescrivergli un'adeguata copertura antibiotica. Questa è una misura prudenziale che protegge il paziente dagli effetti dell'infezione batterica legata all'insulto chirurgico e che aiuta il decorso post-operatorio, in caso di impreviste complicazioni, a prendere una piega positiva.
7.Decorso post-operatorio
Sedute periodiche di controllo consentono di vigilare sul buon andamento della terapia.

Impianti post-estrazione e carico immediato 
L'impianto a vite emergente è particolarmente adatto agli alveoli post-estrattivi, perché può ancorarsi con le sue volute alla lamina dura dell’alveolo e, superato l'apice, raggiungere con la punta la corticale profonda, ottenendo così una solida situazione di bicorticalismo, che, non di rado, è compatibile con il carico immediato.
Dopo l'esecuzione di un'accurata toilette chirurgica dell'alveolo, gli impianti a vite possono essere utilizzati con carico immediato anche subito dopo estrazione di un dente o di un impianto affetto da infiammazione cronica (119,121). 
Nei casi clinici di particolare difficolta, può essere utilizzata la saldatura endorale per solidarizzare tra di loro un impianto a vite ed uno o due impianti ad ago, in modo da aumentare la stabilità immediata dell’impianto e quindi la probabilità di successo. 

Aspetti protesici
a.Protesi Fissa
La protesi fissa su impianti a vite emergente somiglia a quella che si realizza su denti naturali. Dopo la stabilizzazione dei tessuti molli, il moncone dell'impianto viene preparato seguendo una procedura analoga a quella prevista per un dente naturale e destinato all'impronta. Ne consegue che è molto importante posizionare correttamente il moncone dell'impianto già in sede di intervento, valutandone l'emergenza protesica e la posizione rispetto all'antagonista.
Gli impianti sommersi necessitano di un'attenta valutazione della profondità di collocazione della connessione, in modo che si possa poi procedere all'applicazione della componentistica utile ad attuare la correzione del deficit di parallelismo mascherandola al meglio.
Con gli impianti sommersi si può optare anche per soluzioni avvitate che preservano la linearità del profilo emergente dell'impianto-protesi.
Collocazione delle volute
Le volute dell’impianto sono un importante elemento di tenuta immediata, che deve trovarsi nella giusta collocazione rispetto allo stelo dell’impianto. Qualora la cresta ossea sia ampia e sana in tutto il suo decorso, l’impianto può portare volute in tutta la sua lunghezza. Se, invece, l’ancoraggio in tessuto sano è solo in profondità, è consigliabile evitare di stressare la parte più coronale della cresta, evitando il rischio di mancata inclusione o di cedimento strutturale del tessuto osseo. Il medesimo discorso vale per le zone ossee che vanno soggette a deformazione elastica, in cui un impianto reso rigido dalla presenza di volute in tutta la lunghezza facilita la recessione ossea ed aggrava i problemi ad essa conseguenti. Se il tessuto sano è coronale, sarà meglio che le volute si fermino coronalmente e che l’impianto non vada ad essere posizionato in zone che sono state preda di infiammazione.
Riabilitazioni estese
Gli impianti a vite possono essere utilizzati per riabilitare l’intera arcata. Il piano terapeutico deve essere programmato in modo tale da contenere lo stress per il paziente e, se possibile, da consentirgli di svolgere una normale vita di relazione durante la terapia. La funzione applicata all’impianto-protesi deve seguire, per quanto possibile, i criteri della fisiologia occlusale.

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IMPIANTI A LAMA E IMPIANTI PIATTI

L’ideazione e la diffusione dell’impianto a lama si debbono senza dubbio attribuire al Prof. Leonard Linkow, il quale lo presentò nel 1966. Pressoché nel medesimo periodo Roberts introdusse gli impianti piatti (plate-form). La differenza tra i due metodi consiste nella modalità di inserzione: a cuneo, espandendo la cresta ossea (Linkow) e su misura, senza espansione (Roberts). 
Date la somiglianza dei principi e delle tecniche di inserzione e di protesizzazione tra impianti a lama e impianti piatti ed anche considerato che anche l’impianto piatto svolge comunque, penetrando nel tessuto osseo, un’azione di trascinamento delle trabecole ossee, si utilizzeranno indifferentemente, nella trattazione che segue, le denominazioni “impianto a lama” ed “impianto piatto”, salvo particolari considerazioni nelle quali risulti necessaria una distinzione.
Va puntualizzato il fatto che sono esclusi da questa famiglia di impianti gli impianti di forma piatta che superino in qualsiasi parte del corpo o del collo dell’impianto, la misura di 2,0 mm. Si tratta di famiglie di impianti che hanno finalità diverse da quella del trattamento di creste ossee sottili.
Le lame trovano una particolare indicazione anatomica in quelle situazioni in cui la cresta ossea è sottile ed un’indicazione funzionale nelle sedi in cui il carico trasmesso è ben sopportato da una forma piatta.
Data l’esiguità dello spessore, la lama può essere utilizzata sia in creste ampie che in creste sottili. La versatilità dell’impianto a lama può condurre all’idea erronea che si tratti di un impianto universale, da poter inserire in qualsiasi cresta ossea, senza discriminazioni. L’impianto a lama ha precise indicazioni.
Anche per gli impianti a lama, l’analisi della casistica porta alla conclusione che la causa degli insuccessi sia da imputarsi all’uso improprio della tecnica, al mancato rispetto del protocollo chirurgico. A questo aggiungasi il fatto che la lama viene spesso utilizzata come impianto utile a risolvere casi limite ed a cercare di porre rimedio al fallimento di altri impianti, situazioni nelle quali è normale avere una percentuale di successo più bassa.
Attuando una corretta selezione dei pazienti, seguendo i dettami del protocollo chirurgico, che prevede l’affondamento dell’impianto almeno 2 mm. al di sotto della cresta ossea e il posizionamento bicorticale, nonché gestendo con perizia il periodo post-operatorio e la protesizzazione, l’impianto a lama dà risultati soddisfacenti funzionalmente ed esteticamente e risulta affidabile nel tempo.
Un primato degli impianti a lama riguarda proprio la documentazione di durata nel tempo. Nel 1972 il Prof. Ugo Pasqualini eseguì un mono-impianto a lama in titanio in zona 2.1 ad un giovane paziente. Il dott. Marco E. Pasqualini, suo nipote, continua a seguire il paziente sin da quell’epoca. Alcuni anni or sono pubblicò il controllo clinico e radiografico a 40 anni. Si tratta della documentazione pubblicata con radiografie e fotografie sin dalla data dell’intervento più vecchia al mondo.

1.Tipi di lama
La lama originale di Linkow era un impianto a moncone fisso, che aveva forma diverse in dipendenza delle sedi anatomiche cui era destinata. Linkow apportò numerose modifiche migliorative alla superficie ed alla forma dell’impianto, fece costruire lame adatte ad ogni sede anatomica e ne realizzò anche versioni sommerse. All’inizio degli anni ’70 Pasqualini presentò una lama “polimorfa” con moncone avvitato che poteva essere sezionata in modo da essere adattata alle più diverse conformazioni anatomiche.
Numerosi altri autori hanno presentato “variazioni sul tema” che consentono di poter scegliere la forma di impianto che più si avvicina alla conformazione ossea in esame, sviluppando forme emergenti e sommerse. 
Le forme di impianto a lama presenti sul mercato soddisfano le principali esigenze anatomiche e sono dotate di evolute componentistiche protesiche, con connessioni testate per resistenza a norma di legge.

1.Vantaggi degli impianti a lama
1.Possibilità di utilizzare al meglio le creste ossee sottili;
2.Adattabilità alla maggior parte delle conformazioni anatomiche;
3.Valorizzazione dei tessuti esistenti evitando procedure di rigenerazione quando non indispensabili;
4.Correzione meccanica in sede di intervento dei problemi di parallelismo;
5.Adattamento alle strutture anatomiche profonde modificando l’impianto;
6.Possibilità di far scivolare una parte dell’impianto in sedi ossee poste sotto elementi dentari inclinati;
7.Maggiore facilità, data l’estensione della lama, a raggiungere con l’impianto punti di contatto con l’osso corticale in profondità;
8.Possibilità di sfruttare sedi distali della cresta ossea;
9.Gestione dei tessuti molli già in sede di intervento;
10.Risposta dei tessuti perimplantari tipica degli impianti in monoblocco;
11.Minore quantità di componenti protesiche rispetto ad un impianto sommerso;
12.Semplicità della tecnica chirurgica, attuabile con strumentario standard;
13.Affidabilità.
2. Svantaggi degli impianti a lama
1.Con lame estese in senso mesio-distale, invasione delle sedi ossee adiacenti (carico distribuito su di un minor numero di pilastri);
2.Scarsa adattabilità all’inserzione in alveoli post-estrattivi;
3.Minore diffusione commerciale rispetto agli impianti a vite. 
3.Aspetti Biomeccanici
La possibilità, prevista dalla tecnica chirurgica, di modellare l’impianto a lama per adattarlo alla sede anatomica cui è destinato, presuppone da parte dell’operatore la capacità di valutare l’idoneità biomeccanica dell’impianto. Con ogni sistema implantare, la scelta della lunghezza dell’impianto, della sua collocazione in tessuti di diversa densità a contatto o meno della corticale ossea, della protesi che all’impianto verrà ancorata, della funzione più o meno fisiologica cui la sovrastruttura protesica verrà sottoposta, nonché di numerosi altri aspetti da cui dipende il successo della terapia, è affidata esclusivamente alle decisioni dell’operatore. 
Una regola comunemente accettata è che l’impianto a lama abbia almeno un rapporto radice/corona pari ad 1/1 in profondità o, se la profondità è esigua, superiore ad 1/1 in estensione.
 
4.Scelta dell’impianto
Come per ogni altro impianto, la scelta di inserire un impianto a lama deve essere effettuata sulla base dell’idoneità a risolvere la particolare situazione anatomica in esame.
Le creste ossee sottili sono particolarmente adatte ad essere trattate con questo tipo di impianto, che viene collocato tra due corticali strettamente addossate che gli conferiscono stabilità immediata, aumentata ancor di più se corroborata anche dal contatto con una terza corticale in profondità.
Lo studio del caso clinico va fatto con attenzione. Infatti, nel caso in cui si possa prevedere che il moncone non abbia la possibilità di cadere al di sotto della cuspide di centrica, è consigliabile intraprendere la strada della rigenerazione ossea, in modo da modificare l’anatomia per migliorare il rapporto con l’antagonista. Nei settori posteriori, la presenza di un contatto occlusale al di fuori dall’asse dell’impianto determina una torsione che può causare la frattura del moncone, che non va imputata all’impianto, ma all’errata pianificazione terapeutica.

5.Tecnica Chirurgica
Le fasi preliminari della pianificazione del programma terapeutico prevedono in sintesi gli esami diagnostici e la valutazione di fattibilità del lavoro eseguita basandosi sugli esami ematologici, sull’esame obiettivo e sulla visione delle radiografie e/o tomografie. Il paziente deve essere ampiamente informato sulle possibilità terapeutiche attuabili nel suo caso, in modo che possa coglierne vantaggi e svantaggi. In questo modo lo si rende maggiormente conscio del fatto che l’opzione di utilizzare un impianto a lama viene selezionata non per scelta preconcetta di un particolare tipo di impianto, ma per l’idoneità terapeutica del presidio terapeutico adatto alla situazione in esame.
L’anestesia consigliata è la locale, eseguita utilizzando, se non vi sono contro-indicazioni, anestetico con vasocostrittore. L’incisione va fatta, come per ogni impianto emergente o semi-emergente, a centro cresta o in posizione leggermente decentrata, preoccupandosi già in questa fase di rispettare le adeguate dimensioni di gengiva aderente che dovranno circondare il punto di sbocco del moncone protesico. Per decidere con precisione la posizione del moncone, che dovrà cadere al di sotto del punto di scarico delle forze originanti dalla funzione (es.: cuspide di centrica in un molare inferiore), può essere utile aiutarsi con una dima chirurgica.
Eseguita l’incisione, si procede a scollare il mucoperiostio con lo strumento apposito. Nel caso in cui la cresta sia molto sottile, è conveniente scollare il minimo indispensabile, in modo da non sottrarre irrorazione all’osso. Va, infatti, considerato che la breccia ossea, essendo longitudinale, riduce l’afflusso sanguigno dall’interno.
 Utilizzando una fresa in metallo multilame del calibro di 0,9-1,0 mm. montata su turbotrapano, si procede ora ad eseguire dei forellini sulla superficie della cresta ossea, che serviranno da guida per eseguire la breccia chirurgica. Sotto adeguato raffreddamento non vi è  pericolo di surriscaldare dell’osso. In alternativa al turbo-trapano, si può usare il manipolo contrangolo ad alta velocità (anello rosso), sempre sotto adeguato raffreddamento. È anche possibile l’uso del bisturi piezo-elettrico, particolarmente indicato nelle creste ossee di densità D3-D4.
Le dimensioni della breccia devono essere calcolate in senso mesio-distale in base alle dimensioni della lama che, analizzando l’anatomia e le radiografie, si è deciso di inserire. E’ di norma consigliabile eseguire una breccia ossea leggermente sotto-dimensionata, in modo che, dopo l’inserimento a percussione (press-fit), l’impianto abbia maggior stabilità immediata. La breccia deve essere disegnata con un lento movimento di rotazione del polso, seguendo in senso longitudinale l’andamento della cresta. La profondità tenuta nella prima fresatura deve essere tale da mantenersi ad una distanza di sicurezza dalle strutture anatomiche profonde.
In alternativa alla tecnica di fresatura sopra descritta, si può utilizzare una ruota apposita montata su manipolo contrangolo.
Eseguita la breccia in senso mesio-distale, si possono adottare diverse metodiche per stabilire la profondità a cui dovrà essere inserito l’impianto, aspetto che va attentamente calcolato prima della sua collocazione definitiva, in modo da attuare le eventuali modifiche utili ad adattarlo all’osso compatto presente in profondità.
La spalla dell’impianto a lama dovrà infatti essere almeno di 2 mm. più profonda della corticale superficiale.
Un metodo utile a prendere la misura è quello di inserire una fresa sottile od un impianto ad ago ed eseguire una radiografia endorale. Un secondo metodo consiste nell’inserire parzialmente l’impianto nella breccia ed eseguire una radiografia per calcolare quanto manca alla sua collocazione definitiva. 
La misurazione precisa dell’area di immersione nel tessuto osseo è la principale condizione utile a posizionare l’impianto a lama in modo corretto. Alla profondità ossea desunta con precisione analizzando le radiografie sopra descritte, devono essere sottratti almeno  due millimetri, in modo che la spalla dell’impianto sia collocata al di sotto della corticale ossea. E’ meglio eccedere che peccare in difetto, per evitare che l’impianto a lama si arresti ad una profondità leggermente inferiore rispetto agli strumenti di misurazione.
La breccia ossea deve essere disegnata in modo che l’impianto possa ripetere la medesima strada tracciata con le frese. Questo è particolarmente importante in quelle situazioni in cui vi siano addensamenti ossei in profondità che impediscono all’impianto di progredire con l’ausilio della sola percussione.
Se il tessuto osseo è particolarmente rarefatto, può essere sufficiente tracciare la sola breccia superficiale ed assestare l’impianto in profondità rompendo le trabecole ossee con la sola percussione. A questo punto si confrontano con l’impianto a lama le dimensioni della breccia e si eseguono le eventuali modifiche utili ad adattarlo all’anatomia ossea profonda. 
Nel caso in cui il moncone dell’impianto non sia parallelo, è consigliabile adattarlo meccanicamente prima del posizionamento in sede dell’impianto, risolvendo subito i problemi protesici che deriverebbero da una posizione scorretta rispetto all’antagonista.
Il collocamento in sede dell’impianto viene effettuato utilizzando una pinza per inserirlo nella breccia chirurgica, per poi proseguire nell'assestarlo martellando con delicatezza su di uno strumento posizionato sulla spalla dell’impianto. L’impianto andrà a fermarsi sulla corticale della linea milo-ioidea, acquisendo grande stabilità.
Le suture devono contornare il moncone uscente e rispettare l’anatomia delle papille eventualmente presenti. Accertatosi che il moncone non vada soggetto a traumi da parte di denti, strutture protesiche o tessuti molli, l’operatore può ora congedare il paziente prescrivendogli una adeguata copertura antibiotica.

Si riconoscono quindi 9 fasi chirurgiche:
1.Incisione                  
2.Scollamento             
3.Forellini                   
4.Breccia                     
5.Misura
6.Modifiche (se necessarie)
7.Curvatura (se necessaria)
8.Posizionamento
9.Sutura 
 
6.Decorso post-operatorio
Nonostante la tecnica di inserzione in “press-fit” di questi impianti possa lasciar presumere che vi siano particolari sequele post-chirurgiche, il decorso post-operatorio è di norma tranquillo, accompagnato talora da gonfiore, con normale sintomatologia post-operatoria. La prescrizione di cinque giorni di terapia antibiotica è una misura prudenziale che protegge il paziente dagli effetti dell’infezione batterica legata all’insulto chirurgico.

7.Protesi
Il corpo e il collo dell’impianto a lama hanno uno spessore di circa 1,5 mm. La condizione ideale si ottiene quando la base del moncone penetra la cresta ossea, andando a chiuderne l’accesso. In questo modo l’ampiezza biologica va a collocarsi attorno al moncone e non al di sotto di esso, creando i presupposti per un profilo di emergenza dai tessuti molli adatto alle dimensioni del dente di protesi. 
Se, invece, l’impianto non scende alla profondità ideale e quindi il collo del moncone si trova visibile sopra la cresta ossea, l’ampiezza biologica andrà a circondarlo e la base del moncone sarà “seduta”, con andamento obliquo, sui tessuti molli, creando un sovra-contorno.
Queste considerazioni spiegano perché, nonostante l’impianto a lama abbia spessore esiguo rispetto all’impianto a vite root-form, non ci sia una differenza apprezzabile tra il risultato protesico ottenibile con un impianto a lama e quello ottenibile con un impianto a vite.
Nel caso in cui invece il moncone abbia uno spessore sottile, il sovra-contorno protesico che ne consegue non inficierà la durata dell’impianto-protesi, ma ne renderà meno igienica e fisiologica l’accettazione da parte dei tessuti molli. 

8. Carico Immediato
L’impianto a lama può essere caricato immediatamente qualora non vi siano forze che agiscono sulla protesi subito applicata che ne possano pregiudicare la stabilità. La valutazione di opportunità è dunque legata alla capacità dell’operatore di distinguere le situazioni di maggiore o minore idoneità e dalla conoscenza della funzione occlusale, dalla quale dipende il successo della terapia. Molto importante è la ricerca del bicorticalismo, che, aggiungendosi alla stabilità conferita dalle corticali linguale e buccale, consente all’impianto a lama di sopportare da subito le forze funzionali. Nel settore inferiore posteriore, il bicorticalismo può essere ricercato sulla linea milo-ioidea.
Le registrazioni occlusali in occlusione statica e dinamica devono essere meticolosamente eseguite sia nella fase della protesizzazione provvisoria che in quella della protesizzazione definitiva.

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IMPLANTOLOGIA AD AGO

Cenni storici
Gli impianti ad ago furono ideati e presentati agli inizi degli anni ’60 dal francese Scialom (1,2). Egli comprese che, sfruttando le proprietà bio-meccaniche legate alla divergenza degli impianti, dei cilindri sottili di metallo avrebbero potuto garantire l’affidabilità della struttura impianto-protesica. In questo modo, si sarebbe potuto ottenere di ovviare ai problemi legati alla mancanza di spazio nei mascellari, utilizzando impianti di piccolo calibro.
In origine, gli impianti ad ago erano costruiti in tantalio e, per unirli tra di loro e costruire i monconi utili all’ancoraggio delle protesi, si utilizzava resina acrilica (9,61,69).
Si trattava di un momento di grande fervore innovativo, in cui venivano pressoché contemporaneamente presentate le lame (16,64) e le viti (4). Gli aghi furono accolti con grande entusiasmo. Furono presto date alle stampe numerose pubblicazioni (9,52,61), nelle quali si descrivevano la tecnica e le modalità di attuazione della protesi.
Nel 1972, l’italiano Paoleschi pubblicò le sue esperienze con gli impianti ad ago in titanio(45-47), da poco individuato come materiale di elezione per l’implantologia.
Nel 1974, in Germania, il dottor Pruin di Berlino mise a punto una tecnica di fabbricazione di una meso-struttura in lega aurea che veniva cementata agli impianti poco dopo la loro inserzione nel mento(57). A questa meso-struttura veniva ancorata un’overdenture, molto simile a quelle che vengono oggi ancorate alle barre avvitate agli impianti. Documentazioni cliniche comprovanti l’affidabilità della tecnica furono pubblicate da alcuni autori teutonici (66,69,74).
Nel 1977, la SOIA (Società Odontologica Impianti Alloplastici) pubblicò una Selezione Decennale del Bollettino Odonto Implantologico (61), nella quale numerosi autori inserirono i loro casi clinici, inaugurando un nuovo modo di confrontare le diverse esperienze maturate da più operatori con la medesima tecnica, oggi comunemente chiamato studio “multi-centrico”. Nella medesima pubblicazione, si evidenziavano i principi chirurgici del bicorticalismo e comparivano le prime saldature intra-orali, con le quali si otteneva di unire gli impianti tra di loro senza possibilità di gioco, realizzando un rigido complesso impianti-meso-struttura. 
Veniva anche approfondita l’applicabilità della tecnica nelle diverse sedi anatomiche, con particolare attenzione al settore posteriore inferiore, area il cui trattamento rappresenta ancor oggi un problema irrisolto per la maggior parte delle scuole di implantologia. 
A Mondani si deve l’invenzione della saldatrice endorale(65), apparecchiatura con la quale ogni tipo di impianto, emergente e sommerso(83), può essere messo in immediata contenzione, riducendo drasticamente il rischio di insuccesso.

Forma dell'impianto e Strumentario
Gli impianti ad ago sono cilindri di titanio provvisti di una punta che finisce con un angolo ottuso, tale da penetrare in modo atraumatico nei tessuti che attraversa. Le uniche variazioni possono quindi riguardare la forma della punta e la rugosità di superficie. All’estremità coronale, sono provvisti di due alette, utili al montaggio sul mandrino, che a sua volta va montato sul manipolo da micromotore. Il mandrino è provvisto di due scanalature, all’interno delle quali entrano le alette dell’ago, che può così essere fatto ruotare anche in situazioni in cui è necessario un “torque” elevato. Il mandrino è disponibile in diversi calibri e diverse lunghezze. A volte, per avere una buona visibilità nella bocca del paziente è necessario utilizzare un mandrino lungo, in altri casi la scarsa apertura della bocca impone l’uso di un mandrino corto.  
Inserimento dell’impianto
Di norma, gli impianti ad ago vengono fatti scendere nel tessuto osseo con un movimento rotatorio, utilizzando un manipolo da micromotore a bassa velocità e “torque” elevato (doppio anello verde).
Alcuni autori suggeriscono di utilizzare la sola percussione. Per attuare questa procedura, si avvalgono di un martello e di uno scalpello cavo all’estremità, conformato in modo tale da accogliere saldamente l’ago durante la manovra.
Altri preferiscono inserire l’impianto a rotazione ed utilizzare la percussione per coprire l’ultima fase del tragitto, fino a raggiungere la corticale profonda. 
Il calibro e la lunghezza dell’impianto vanno attentamente valutati, per stabilire la forza di penetrazione da erogare durante l’inserimento e le dimensioni utili dei pilastri. Di norma, gli aghi vengono utilizzati preferibilmente nei calibri 1,2, 1,3 ed 1,5, montati su mandrini di misura adatta. La lunghezza di questi impianti varia da 25 a 40 mm. Più l’ago è lungo e sottile, maggiore è la sua flessibilità.
 
Vantaggi e Svantaggi degli Impianti ad Ago
Vantaggi:
1. Rapidità di esecuzione chirurgica
2. Atraumaticità della tecnica, utilizzabile anche in pazienti anziani
3. Accorciamento dei tempi terapeutici
4. Risoluzione di casi difficili con un ottimo rapporto sforzo/beneficio per il paziente
5. Idoneità al carico immediato
6. Assorbimento delle forze non in asse con la corona protesica
7. Possibilità di trattare creste sottili
8. Ottimo rapporto radice/corona, in ragione dello sviluppo in profondità dell'impianto
9. Idoneità al trattamento delle creste ossee con osso spugnoso di densità D3-D4 (osteoporosi)
10. Possibilità d’uso anche come impianto di supporto ad altri impianti
Svantaggi:
1. Invasione, soprattutto nei mono-impianti, degli spazi adiacenti
2. Gestione particolare della protesi 

Aspetti biomeccanici
Un requisito obbligatorio per ottenere il successo con questa tecnica è che raggiunga il bicorticalismo con tutti gli impianti ad ago inseriti. Dopo gli studi di Garbaccio sugli impianti a vite (53,78), si è superata l’indicazione iniziale fornita da Scialom e Ackermann che fosse sufficiente raggiungere in profondità osso formato, ma si ritiene necessario il raggiungimento della corticale ossea profonda (bicorticalismo). 
Con l’ago si va ad impattare la corticale opposta al punto di infissione, appoggiandosi alla sede ossea più resistente. L’impatto con la corticale profonda è un evento che può essere verificato durante l’intervento, secondo le modalità che verranno descritte nella sezione dedicata alla tecnica chirurgica.
La condizione ideale si realizza quando su un singolo impianto ad ago viene applicato un carico assiale. Di norma questi impianti vengono posizionati in gruppi di tre o più. La divergenza con la quale questi impianti vengono inseriti consente però di ottenere condizioni biomeccaniche favorevoli anche nel caso in cui le forze applicate non siano assiali, purché la loro applicazione cada all’interno il perimetro disegnato delle punte degli impianti (52). Le punte degli impianti ad ago bicorticali disegnano l’anatomia profonda, rendendola tridimensionalmente intuibile.
Nelle grandi riabilitazioni dell’arcata inferiore, la saldatura di una serie di impianti bicorticali infissi in tutta l’arcata consente di ottenere stabilità dell’implanto-protesi, requisito fondamentale per ottenere l’inclusione ossea dell’impianto.
 
Il raggiungimento del bicorticalismo consente di poter trattare creste di diversa densità con aspettative di successo analoghe, perché le forze vengono a scaricarsi immediatamente sul tessuto osseo compatto. Anche se l’impianto attraversa una cresta ossea pressoché vuota, è in grado di scaricare in profondità le forze funzionali.
Successivamente all’intervento, l’osso si appone progressivamente attorno all’impianto, formando tipici coni di addensamento che attestano come, dopo una fase iniziale in cui si scaricano all’apice, le forze occlusali e masticatorie agiscano sempre più coronalmente (84).
Superficie
Dato che le leggi che governano la biomeccanica di questi impianti sono basate sul bicorticalismo, la rugosità di superficie non sembra influire più di tanto sul risultato di inclusione ossea. Tanto più che l’impiego di una superficie rugosa causerebbe problemi igienici nel punto di emergenza di questi impianti, la cui profondità di inserzione non è prevedibile con precisione, in quanto il solo fatto che la punta dell’impianto colga la corticale ossea appena più medialmente o lateralmente del previsto, causa una profondità di inserzione diversa, e, quindi, un diverso punto di emergenza. Gli impianti ad ago sono quindi provvisti di superficie liscia, che è un giusto compromesso tra esigenze igieniche ed esigenze di osteo-inclusione.
Sedi anatomiche
Gli impianti ad ago hanno indicazione all’impiego solo in situazioni anatomiche selezionate, in cui il principale elemento di stabilità rimasto è la corticale profonda. La sede di elezione sono le creste inferiori atrofiche provviste di tessuto spugnoso di densità D3 o D4 che, con questi impianti, si riescono a trattare con il carico immediato ed un valido risultato protesico.
Nei casi clinici caratterizzati da atrofia di spessore e di altezza, rappresentano una tecnica che combina rapidità di esecuzione, atraumaticità, carico immediato, affidabilità a distanza di tempo, con soddisfazione del paziente.  
Gli impianti ad ago si rivelano particolarmente utili anche a risolvere casi estremi in cui altri impianti sono falliti, determinando un marcato riassorbimento della cresta ossea.
Un’altra sede anatomica per cui sono particolarmente adatti, sono i crateri ossei post-estrattivi all’apice dei quali non vi è osso residuo. Si possono infatti  inserire in direzioni divergenti andando ad utilizzare il tessuto osseo adiacente all’alveolo post-estrattivo, ottenendo una struttura impiantare che spesso offre tali requisiti di stabilità, da essere utilizzabile per il carico immediato.
Un’altra applicazione della tecnica è lo sfruttamento dell’esigua lamina di tessuto osseo spugnoso presente tra seno mascellare e palato (71). 
 
L’impianto ad ago è particolarmente utile nei casi difficili. Infatti, nonostante gli impianti ad ago abbiano un’ottima predicibilità di successo anche in molte altre sedi del cavo orale, alla loro dimensione esigua conseguono difficoltà di gestione della protesi, che inducono ad optare, qualora ve ne sia la possibilità ed analoghe aspettative di successo, per impianti di calibro maggiore. Il risultato protesico è comunque decoroso.
Esami Diagnostici
L’esame radiografico pre-operatorio è finalizzato ad apprezzare le variazioni di densità del tessuto osseo che si andrà a trattare e la profondità a cui dovremo aspettarci che l’impianto ad ago vada ad impattare le corticale ossea profonda. Nel caso in cui gli impianti vengano fatti passare a fianco di strutture anatomiche profonde (es: nervo alveolare inferiore), la direzione di inserzione viene decisa analizzando attentamente una TC. 
Data la profondità a cui questi impianti vengono inseriti, può essere indicata un’ortopantomografia intra-operatoria per verificare il corretto impatto sulle corticali ossee.
Un esame radiografico post-operatorio dà la conferma della corretta esecuzione dell’intervento. 
Tecnica chirurgica
1. Anestesia
L’anestesia consigliata è quella locale perché, di norma, è adatta a garantire il blocco utile a fare l’impianto. Nei settori posteriori inferiori, alcuni autori(70) sostengono che non fare un’anestesia molto forte sia un presidio di sicurezza poiché, nel caso in cui l’impianto si avvicinasse al nervo alveolare inferiore, il paziente se ne accorgerebbe, consentendo all’operatore di correggere la direzione di inserzione dell’impianto.
2. Incisione
L'incisione della mucosa viene effettuata di norma a centro cresta, in modo tale da garantire la presenza di un adeguato spessore di gengiva aderente attorno al moncone dell'impianto. Dato che la tecnica prevede che gli impianti ad ago vengano inseriti con orientamenti divergenti, l’incisione è particolarmente importante, perché consente di riposizionare la gengiva aderente attorno a tutti gli impianti, garantendo un adeguato sigillo nei confronti delle infezioni. 
Solo nel caso in cui vi sia una banda di gengiva aderente tanto ampia da poter accogliere nel suo contesto aghi divergenti, l’incisione può essere evitata, seguendo i criteri della chirurgia minimamente invasiva. In questo senso, gli impianti ad ago rappresentano una tecnica che segue l’impostazione più apprezzata: quella del massimo risultato con il  minor trauma per i tessuti e per il paziente. Questo risulta particolarmente utile con pazienti ansiosi o affetti da patologie generali che impongono interventi di minima invasività.
 
Dopo l'incisione, si procede a scoprire la cresta ossea con lo scollaperiostio per avere una chiara visione anatomica. Lo scollamento deve essere comunque ridotto al minimo indispensabile per non sottrarre all'osso l'irrorazione periostale.
3. Alveolo Chirurgico
A. Foro superficiale
La corticale superficiale è, di norma, consistente. Di conseguenza, è necessario utilizzare uno strumento tagliente per forarla. Nel caso degli aghi, è particolarmente importante utilizzare una fresa di calibro sottile, in modo da non perdere la tenuta della corticale superficiale, che rappresenta uno dei requisiti di stabilità di questi impianti. Si può utilizzare un “Torpan” (allargacanali da manipolo contrangolo) del calibro di 0.8-1 mm., od una fresa del calibro di 0,9-1 mm. montata su turbotrapano. Se vi sono strutture anatomiche profonde da rispettare (es: nervo alveolare inferiore), è necessario fare particolare attenzione a mantenersi ad un’adeguata distanza da esse, in modo da non causare lesioni.
B. Fresatura
La prosecuzione del foro in profondità con il Torpan va fatta solo in zone in cui non vi sia il rischio di causare danno a strutture nervose e solo se la densità ossea lo richiede. Nella maggioranza dei casi, l’impianto ad ago viene fatto scendere nel tessuto osseo subito dopo aver eseguito il foro superficiale, senza penetrare in profondità con il torpan.
4. Inserzione dell'impianto
Vi sono diverse modalità con le quali l’impianto ad ago viene fatto scendere all’interno della cresta ossea, in dipendenza della diversa conformazione e delle diverse impostazioni terapeutiche. Dopo aver forato la cresta ossea superficiale, l’impianto ad ago può essere montato sul mandrino, a sua volta montato sul manipolo contrangolo da micromotore, e fatto scendere con un movimento rotatorio fino al raggiungimento della corticale profonda. Nel caso in cui si stia trattando il settore distale inferiore e si debba quindi passare a fianco del nervo alveolare inferiore, si può avere l’accortezza di usare una rotazione lenta, invertendo più volte il senso di rotazione, in modo da non incorrere nel rischio di coinvolgere il nervo (101).
 
Al raggiungimento della corticale ossea profonda, una leggera percussione consente di apprezzare il tipico “suono corticale”, che dà la conferma diagnostica del corretto posizionamento dell’impianto. Il bicorticalismo è condizione imprescindibile per poter avere un’aspettativa di successo con questi impianti.
Alcuni autori consigliano la sola percussione per far scendere l’ago. La maggioranza degli specialisti utilizza combinazioni delle diverse tecniche.
Il fatto che più impianti della medesima lunghezza si fermino tutti alla medesima profondità è un’ulteriore conferma del loro corretto posizionamento.
Una radiografia panoramica intra-operatoria, eseguita prima della saldatura, abbinata alla sensazione percepita durante la chirurgia ed al fatto di aver seguito il programma studiato sulla TC, consente di confermare che tutto si è svolto secondo le previsioni.
 
5. Correzione del Difetto di Parallelismo
Essendo divergenti, gli impianti ad ago hanno inclinazioni diverse al loro sbocco dalla cresta ossea. Di conseguenza, è spesso indicato correggere il loro orientamento, in modo da poterli saldare intraoralmente facendo sì che il moncone cada in una sede ossea adatta alla protesi. Le proprietà meccaniche del Titanio consentono di attuare la piegatura senza incorrere nel rischio che l’impianto si fratturi. La correzione meccanica del parallelismo va attuata andando ad agire sull’impianto in prossimità del punto di emergenza dall’osso. Si può utilizzare lo stesso mandrino con il quale l’ago è stato inserito nella cresta ossea.
6. Sutura
Le suture, a punti staccati, devono essere fatte mesialmente e distalmente rispetto ad ogni impianto ad ago. Nel caso in cui siano stati inseriti molti impianti ad ago, questo può richiedere tempo. Una sutura accurata consente di creare la situazione ideale affinché si mantenga un adeguato sigillo di gengiva aderente attorno agli impianti. Nel caso in cui gli aghi vengano saldati tra di loro per realizzare il cosiddetto “tripode”, la sutura va effettuata attorno al moncone così ottenuto.
La sutura deve precedere le manovre di saldatura intra-orale ed il rimodellamento degli aghi con le frese, in modo da non correre il rischio di sporcare il periostio con polvere di titanio.
7. Saldatura
Gli impianti ad ago vanno messi in contenzione immediatamente dopo l’inserzione. Dopo la sutura, si esegue quindi la saldatura. 
 
Se gli impianti sono tra di loro vicini, possono essere saldati tra di loro senza aggiungere fili o barre di titanio. Se invece non è possibile unirli direttamente, si utilizzano presidi di titanio aggiuntivi che uniscono gli impianti tra di loro. Possono essere utilizzate barre singole, fili singoli, fili multipli, in dipendenza delle diverse impostazioni e della necessità di dare forza alla struttura impiantare. Nei settori posteriori inferiori, in cui si inseriscono numerosi impianti ad ago aventi diverse direzioni, la barra saldata che li unisce deve correre al centro della cresta ossea. 
Talora è conveniente saldare barre o fili di titanio agli impianti anche se sono tra di loro vicini, per costruire il moncone o per correggere un difetto di posizione del moncone.  
La saldatura può essere eseguita anche tra uno o più impianti ad ago ed impianti di altro tipo. Un tipico esempio è la saldatura tra un impianto ad ago ed un impianto a vite. In questo caso, l’impianto ad ago stabilizza la vite, ne impedisce la rotazione e va ad ancorarsi nel tessuto osseo profondo adiacente che la vite non può raggiungere. Questa configurazione strutturale è ideale nei casi di necessità urgente  di carico immediato.
8. Preparazione
Il moncone ottenuto saldando tra di loro gli impianti ad ago viene preparato già alla fine della seduta chirurgica. Se si stratta di una barra che unisce tra di loro numerosi aghi, si deve avere l’accortezza che abbia una corretta posizione in senso linguo-vestibolare e che sia povera di sottosquadri. 
9. Provvisorio
Preparato il moncone o la barra, si procede alla fase di ribasatura della protesi provvisoria, che può essere immediatamente messa in opera, avendo l’accortezza di registrare con precisione l’occlusione statica e dinamica.
10. Conclusione della seduta impianto-protesica
La prescrizione di un’adeguata copertura antibiotica, soprattutto negli impianti post-estrattivi immediati, è una misura prudenziale che protegge il paziente dal rischio di super-infezioni.
Post-estrattivi
Gli impianti ad ago sono particolarmente utili, subito dopo estrazione dentaria, nelle zone estetiche, dove il carico immediato è una necessità pressoché obbligatoria per evitare apparecchi rimovibili o il coinvolgimento di denti adiacenti. Tipica è la situazione in cui vengono inseriti al posto di un incisivo superiore. Gli impianti sono stabilizzati dal contatto con la corticale profonda e quella superficiale, rappresentata dalla lamina dura dell’alveolo. La saldatura di più aghi infissi seguendo questi principi dà notevole forza alla struttura. L’aspetto protesico va gestito cercando di unire gli impianti tra di loro in profondità, in modo che sbocchino dalle mucose come un moncone unico, evitando di creare ampie biforcazioni sopra-gengivali.
Carico immediato
Gli impianti ad ago sono sempre stati utilizzati per il carico immediato, sin dalla loro prima presentazione, avvenuta all’inizio degli anni ’60 (1). Più di 50 anni di esperienza hanno consentito di valutare con attenzione i tempi del carico con questa tecnica nelle varie situazioni anatomiche. Oltre alle regole operatorie ed alle indicazioni alla terapia con questi impianti, si sono potute trarre valutazioni sull’affidabilità.
Allo stato attuale della conoscenza, sembra che i lavori completi “circolari” eseguiti nell’arcata inferiore diano le migliori caratteristiche di affidabilità nel tempo (75, 85, 94, 102, 103).
 
Protesi
La protesi su impianti ad ago necessita di accorgimenti particolari, in quanto la dimensione esigua degli impianti e la presenza di biforcazioni, rappresentano 2 fattori che, in teoria, contrasterebbero un buon livello igienico. Durante il lungo periodo di sviluppo della tecnica, che tutt’oggi è in continua evoluzione, si sono migliorati alcuni aspetti, in modo da ottenere un risultato migliore. È sempre opportuno ricordare che questi impianti si utilizzano in condizioni particolari, vale a dire in casi di estrema atrofia, di necessità di carico immediato in zona estetiche atrofiche, in casi di osteoporosi, in pazienti che necessitano di essere trattati con una tecnica atraumatica. Il confronto sull’aspetto protesico va quindi fatto con le altre soluzioni impianto-protesiche attuabili in questi casi estremi. 
La barra che unisce gli impianti ad ago può essere saldata a diverse altezze rispetto alle mucose. Saldandola raso-gengiva (barra bassa) si ottiene il miglior risultato biomeccanico. Infatti, avvicinando il più possibile il punto di saldatura al punto in cui l’ago entra nell’osso, si aumenta la rigidità della struttura, scongiurando il pericolo di fratture o di flessioni dei singoli aghi. Saldandola invece a distanza dalle mucose (barra alta), nei casi di atrofia, si può costruire una protesi sciacquabile che, in zone non estetiche, permette di ottenere un risultato igienico di qualità (104).
La scelta va fatta già in sede di programmazione dell’intervento e spiegata al paziente.

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SALDATURA ENDORALE

Cenni storici
Il fatto che la contenzione immediata aumenti l’indice di successo degli impianti caricati immediatamente è un dato acquisito in letteratura.
Le prime intuizioni in merito comprovate da casistica clinica, furono descritte da Ugo Pasqualini nel 1972 (1).
Numerosi specialisti del settore utilizzarono i più svariati mezzi di contenzione, basati per lo più sull'uso di protesi provvisorie e strutture armate in resina, antesignane delle odierne barre avvitate agli impianti (2,3).
Un’innovazione importante in tema di contenzione degli impianti si ebbe durante gli anni ’60, quando il dott. Pier Luigi Mondani, un dentista di Genova, brevettò la sua saldatrice endorale (1968), realizzata in collaborazione con l’Università di Modena. Con questo apparecchio è possibile unire gli impianti tra di loro in un'unica struttura, senza soluzione di continuità e quindi senza alcun gioco tra le parti messe in contenzione. La saldatrice fu presentata ufficialmente nei primi anni ‘70, mentre la descrizione tecnica di quest'invenzione fu pubblicata solo più tardi, nel 1982 (4).
Il fine per cui Mondani si prodigò per realizzare questo apparecchio era quello di mettere in contenzione immediata gli impianti ad ago in titanio. Fino a quel momento, gli aghi di Scialom in tantalio venivano uniti con resina auto-polimerizzabile all’emergenza dalla gengiva. Risultava difficile metterli in contenzione quando erano distanziati tra di loro, cosa che, nella norma, si gestiva usando retine metalliche in remanium che servivano a dar corpo alla contenzione, secondo un principio simile a quello del cemento armato. In effetti, tutte le meso-strutture a base resinosa potevano, sotto lo sforzo della funzione occlusale e masticatoria, staccarsi dagli aghi che, rimasti isolati, andavano facilmente incontro a problemi. L’introduzione di uno strumento che consentisse di realizzare una contenzione stabile costituiva un’importante innovazione, che avrebbe consentito alla tecnica ad ago di diventare una tecnica ripetibile e, quindi, scientificamente credibile. C’era bisogno di individuare i materiali e gli strumenti adeguati.
In quegli anni in Italia si era seguito il suggerimento di Tramonte di convertire in titanio gli impianti a vite che sino a quel momento venivano prodotti in acciaio(5). Seguirono lo stesso trend anche le altre forme d’impianto, tra cui gli impianti a lama, gli impianti ad ago e, più tardivamente, gli impianti iuxtaossei. Questo cambiamento prese piede perché si cominciavano a conoscere le qualità di resistenza alla corrosione del titanio, e si constatavano incoraggianti risultati di successo nelle sue applicazioni mediche. Il titanio veniva usato in aeronautica, essenzialmente nella lega con alluminio e vanadio, che garantiva elevata resistenza e alta temperatura di fusione. Mondani trovò adeguate soluzioni che permettevano l’uso sul paziente di un apparecchio per saldare il titanio, riducendo al minimo i tempi di azione dell’impulso elettrico, in modo da impedire al calore di diffondersi. Con la saldatrice veniva risolto anche il problema di unire gli impianti collocati lontani tra di loro, saldandoli ad una barra di titanio che fungeva da travata rigida.
I dentisti che possono avvalersi dell’uso di questo apparecchio, ne hanno poi individuato numerose applicazioni, che si aggiungono alla contenzione immediata degli impianti ad ago per cui fu presentata. 
Metodica
La procedura di saldatura secondo Mondani viene messa in atto subito dopo il posizionamento degli impianti in titanio.
L’apparecchio “saldatrice endorale” è provvisto di un accumulatore di corrente, di un potenziometro e di una pinza. Questo apparecchio emette una carica molto intensa, ma per un periodo così breve (4 msec.) che il calore sprigionato non si propaga oltre alle zone limitrofe al punto in cui la pinza viene applicata. Come presidio di sicurezza, la saldatura va comunque effettuata sotto raffreddamento con acqua fredda. 
La saldatrice emette due impulsi in rapida successione. Con il primo i due pezzi vengono “puntati”, con il secondo vengono saldati.
Requisito fondamentale è che i due pezzi di titanio da saldare siano in contatto tra di loro ed a contatto dei beccucci della pinza, in modo che vi sia un fluido passaggio di corrente. 
È possibile saldare due o più impianti tra di loro direttamente o a mezzo di una barra di titanio.
La contenzione può essere anche realizzata mediante più fili di titanio.
Per cercare di ridurre al minimo il volume interno della barra, si può modellarla prima di eseguire la saldatura in modo da far sì che corra a centro cresta.
 
Applicazioni della saldatrice endorale di Mondani
In linea generale, la saldatrice endorale può essere utilizzata per mettere in connessione tra di loro qualsiasi topologia d'impianto in titanio. Nello specifico, si elencano qui di seguito le applicazioni più frequenti, suddividendole in principali e accessorie.

Applicazioni principali:
1. Mettere in contenzione immediata tra di loro impianti endoossei
2. Connettere nuovi impianti ad impianti endoossei già osteointegrati
3. Stabilizzare altri impianti 
Applicazioni accessorie:
4. Connettere impianti già osteointegrati
5. Mettere in contenzione tra di loro impianti endoossei e iuxtaossei
6. Mettere in contenzione tra di loro, con adeguati connettori, denti ed impianti
7. Ricostruire monconi degli impianti di altezza o forma inadeguata
8. Ricostruire impianti fratturati
9. Connettere impianti fratturati a nuovi impianti
10. Mettere in contenzione gli impianti tra di loro sottomucosa


APPLICAZIONI PRINCIPALI
1a. Contenzione definitiva
Si tratta della principale applicazione della metodica di saldatura intra-orale. La contenzione immediata degli impianti influisce in senso positivo sulla loro stabilità, favorendo l'inclusione ossea degli impianti senza tessuto connettivo interposto, ossia l'osteointegrazione. La contenzione immediata con la saldatura può essere effettuata tra due o più impianti, per consentire il carico immediato e per proteggere gli impianti dall’azione espansiva della lingua (6-11).
Quando se ne ravvisi la convenienza, la barra può essere mantenuta anche nella fase di protesizzazione definitiva(12-18).
Studi recenti hanno dimostrato che la presenza della barra non crea problemi infiammatori (19,20).
Uno dei vantaggi di questa metodica di contenzione e' rappresentato dal fatto che possono essere saldati tra di loro impianti emergenti e sommersi di diversa forma, consentendo all'operatore la libera scelta dell'impianto. Questo aspetto non e' affatto marginale, perche' slega dal vincolo ad una sola ditta produttrice. Infatti, i sistemi di contenzione basati sull'impiego di barre avvitate sono caratterizzati da componentistica che, giocoforza, dovendosi accoppiare perfettamente, impone l'utilizzazione di impianti della stessa casa produttrice. Questo limita le opzioni terapeutiche e quindi le possibilita' di trattamento. Il problema si evidenzia particolarmente nei casi difficili, in cui una sola tipologia d'impianto non e' spesso sufficiente a permettere di risolvere il caso. 
In linea di massima, quando si preveda di mantenere la barra di saldatura anche nella fase definitiva, si utilizzano impianti in mono-blocco ("one-piece"). Al contrario, quando  si intende eliminare la barra di saldatura prima di realizzare la protesi definitiva, si utilizzano impianti sommersi in modo da posticipare e gestire a piacimento le fasi protesiche. Vi sono alcune deroghe a questa regola generale, legate alla programmazione chirurgica e protesica della riabilitazione in atto.
Nel caso in cui s'intenda mantenere la barra di saldatura anche nella protesi definitiva (contenzione definitiva), il volume della barra va valutato con attenzione in sede chirurgica, avendo cura di posizionarla in moda tale da evitare che causi problemi nella realizzazione della protesi ed in relazione agli spazi vitali di cui la lingua necessita all'interno del cavo orale. In genere la scelta di mantenere la barra e' dovuta alla difficolta' del caso clinico. Infatti la barra permette di dar forza alla struttura non solo quando vi sia scarsa profondità ossea, ma anche quando gli impianti siano inseriti in modo inclinato per non danneggiare strutture anatomiche rilevanti, come ad esempio il forame mentoniero. Uno studio sui criteri di mantenimento o eliminazione della barra è stato pubblicato di recente(21). In questo studio si propone l’uso un Indice Prognostico Implantare (IPI) che classifica il rischio di insuccesso in diverse categorie, in base alla distanza intermascellare, all’asse dell’impianto e alla distanza tra le cuspidi di centrica. La presenza della barra saldata consente di mitigare l’effetto dei fattori negativi, estendendo la possibilità di trattamento anche in casi particolarmente difficili. In uno studio statistico recente si sono riportati i dati di 14 casi di riabilitazione completa dell’arcata superiore atrofica, utilizzando 193 impianti con una procedura mista 2 tempi-1 tempo (procedura “Auriga”), con completo successo (17).
Implantologia ad ago
Nel caso dell'implantologia ad ago, la barra di saldatura va preferibilmente posizionata a centro cresta, in modo da consentire alla struttura su aghi il miglior assorbimento delle forze. La stessa regola vale anche per strutture implantari costituite tipologie diverse di impianti sottili. Il posizionamento della barra a centro cresta permette di realizzare la protesi con corretti volumi interni ed esterni. L’elemento su cui la protesi andrà ad ancorarsi è costituito dall’insieme barra-monconcini degli impianti.
La tecnica di protesi presenta alcune particolarità. Necessita infatti di specifiche metodologie d’impronta, di modellazione della struttura e di cementazione. Si rinvia a riguardo alla letteratura specialistica(22-23). 
La soluzione di impianto ad aghi è particolarmente adatta a creste ossee sottili e allo sfruttamento di esigui recessi nel contesto del processo alveolare, sfruttando il principio del bicorticalismo.
Per adeguata referenza bibliografica, si vedano le voci bibliografiche 24-47. Oggi la tecnica ad ago viene utilizzata nelle sue applicazioni specifiche ed applicando le migliorie chirurgico-protesiche derivate dalla lunga esperienza clinica maturata (48-53). Uno studio statistico su 16 anni (1996-2012) di casi clinici trattati con 351 impianti ad ago nella mandibola posteriore riporta le seguenti percentuali di successo: 99% a 5 anni e 95,8% a 10 anni (49,52).
1b. Contenzione provvisoria
La saldatura può essere utilizzata per mettere in contenzione gli impianti tra di loro a fine intervento ed essere poi rimossa prima di eseguire la protesi definitiva. 
Quando,  dopo aver ottenuto l'osteointegrazione sotto carico, la barra viene rimossa, i passaggi protesici successivi sono agevolati dal fatto che le mucose sono gia' guarite e stabilizzate attorno alla circonferenza dei monconi. Infatti, qualsiasi tipologia d'impianto si utilizzi, la gestione del sigillo gengivale attorno all'impianto e' affidata alla fase chirurgica in cui l'impianto viene posizionato. L'incisione chirurgica va fatta a centro cresta, nel contesto della gengiva aderente, che deve contornare il moncone dell'impianto, permettendo di risultare poi in una fisiologica ampiezza biologica. L'incisione vestibolare, proposta per l’implantologia sommersa e poi abbandonata, non permette di ottenere questo risultato e non rappresenta quindi neppure qui una scelta adeguata.
La contenzione può essere applicata a fine intervento ad impianti emergenti o a combinazioni di impianti emergenti e sommersi per stabilizzarli immediatamente ed essere poi rimossa dopo l’inclusione ossea degli impianti, per eseguire una protesi fissa priva della barra di contenzione (17,21). L’indicazione più frequente ad eseguire questa procedura si ha quando in sedi adiacenti la morfologia della cresta ossea porta a scegliere diversi tipi di impianto. Ad esempio, può esserci una cresta molto sottile nella zona del sesto inferiore, che può condurre alla scelta di un impianto emergente ed una cresta ampia in zona quinto, che consente l’utilizzazione di un impianto sommerso. In questo caso due o più impianti, sommersi e non sommersi, possono essere messi in contenzione temporanea, che viene poi eliminata prima di procedere alla gestione degli impianti finalizzata all’esecuzione della protesi definitiva.
L’assoluta identità di integrazione ossea tra impianti sommersi e non sommersi è stata più volte dimostrata in letteratura (54,55).
Vantaggi notevoli si ottengono anche unendo tra di loro più impianti sommersi, dopo aver avvitato in essi i monconi di guarigione. Oltre a migliorare i requisiti biomeccanici del complesso implantare consentendo il carico immediato, si condizionano i tessuti molli già in sede di intervento, con i seguenti vantaggi, già descritti in letteratura (8,56,57): 1. facilità di inserzione dei monconi dopo il periodo di guarigione, in un tessuto già pronto a riceverli. 2. Mantenimento della gengiva aderente attorno agli impianti durante il periodo di guarigione, escludendo la necessità del re-intervento per riposizionarla attorno al moncone. 3. Riduzione delle sedute e dei fastidi per il paziente. 4. Semplicità di esecuzione. 5. Estetica di ottima qualità.
I monconi di guarigione vengono separati ed eliminati prima di procedere alle fasi della protesizzazione definitiva.

2.Connettere nuovi impianti ad impianti endoossei già osteointegrati
Questa modalità di gestione del caso clinico può essere programmata nel piano terapeutico o può sorgere dal fatto che si sta trattando un caso clinico in cui già figuravano impianti posizionati anni prima.
In casi in cui il tessuto osseo disponibile sia poco, il carico immediato su impianti può dare risultati incerti. Si può quindi utilizzare le possibilità offerte dalla saldatura posizionando impianti sommersi posteriormente rispetto agli elementi dentari o alle protesi presenti e andando dopo alcuni mesi ad eseguire altri impianti, adatti alla situazione di atrofia, che vengono immediatamente saldati agli impianti posizionati precedentemente ed immediatamente caricati (tecnica Auriga)(17,58).
La necessità di aggiungere impianti può insorgere per ampliare l’arcata protesica o per sostituire pilastri dentari o implantari inefficienti. La saldatura all’impianto già osteointegrato conferisce immediata stabilità al nuovo impianto.
3a.Stabilizzare altri impianti per prevenire problemi di stabilità
Nelle situazioni in cui il solo impianto inserito non dia garanzie di stabilità per la scarsa disponibilità ossea offerta dal sito “recettore”, si può saldare un impianto ad ago, talora due, all’impianto, in modo da conferirgli immediata stabilità, rendendolo idoneo al carico immediato (49-51).
Questa procedura di stabilizzazione immediata dell’impianto con impianti ad ago è particolarmente utile nei casi in cui la sede di inserzione dell’impianto non offra dimensioni sufficienti in profondità, mentre un ancoraggio migliore può essere reperito nella sede ossea adiacente.
3b.Stabilizzare altri impianti per correggere problemi di stabilità
La saldatura di un impianto ad ago può avvenire anche in un secondo tempo, nel caso in cui vi siano perplessità dopo il periodo dio osteo-inclusione. In questo caso l’ago saldato salva l’impianto da sicuro fallimento e risolve in modo brillante situazioni di “empasse” che possono danneggiare irreparabilmente il rapporto con il paziente.

APPLICAZIONI ACCESSORIE

4a. Connettere impianti già osteointegrati per realizzare una struttura più idonea per la protesi fissa
Impianti già osteo-integrati possono essere uniti dalla saldatura per realizzare una struttura implantare più ritentiva.
Qualora lo spazio verticale inter-arcate sia minimo, il moncone dell’impianto ha dimensioni molto esigue e risulta quindi poco ritentivo. La barra saldata può essere utilizzata per ampliare il volume di ancoraggio protesico.
La saldatura di impianti già inclusi dall’osso necessita di particolare attenzione. Infatti, la saldatura che mette in contenzione gli impianti subito dopo il loro posizionamento non crea problemi se questi vengono messi in tensione, anzi esercita un effetto distrattivo osteo-induttivo. Al contrario, dopo l’osteo-inclusione, un eccesso di tensione può rivelarsi dannoso per l’osso e foriero di sofferenza ossea da compressione.
Qualora le condizioni anatomiche non siano tali da consentire il corretto posizionamento degli impianti nei confronti dell’antagonista, la saldatura può essere utilizzata come mezzo di compensazione.
Riguardo al rapporto con l’antagonista, un riferimento utile alla valutazione del caso è costituito dal cosiddetto IPI (Indice Prognostico Implantare) (21). Questo indice mette in relazione distanza, asse ed inclinazione del moncone implantare rispetto al centro fossa dell’antagonista. Dall’analisi di questi tre aspetti deriva un valore dal quale si evince se è necessario o meno mantenere la barra saldata.

4b. Connettere impianti già osteointegrati per realizzare una barra di ancoraggio per la protesi mobile
Questa applicazione è agevolmente attuabile utilizzando una barra di dimensione calibrata rispetto alle clips di ancoraggio della protesi.

5.Mettere in contenzione tra di loro impianti endoossei e iuxtaossei
La saldatura può essere effettuata anche per stabilizzare impianti iuxtaossei. Quando il tessuto osseo residuo è ridotto alle basi ossee o poco più, l’impianto sottoperiosteo è una soluzione valida, ampiamente sperimentata. I requisiti di tenuta dell’impianto sono offerti dalla conformazione superficiale della cresta ossea residua. L’impianto sottoperiosteo può essere fuso già partendo da un disegno che preveda dei prolungamenti utili a permettere la saldatura ad impianti endoossei. La situazione migliore si realizza quando vi siano impianti endoossei preesistenti, quali ad esempio viti in titanio fratturate o posizionate allo scopo alcuni mesi prima. Questi impianti infatti offrono la migliore tenuta, stabilizzando immediatamente l’impianto sottoperiosteo che vi viene saldato. Se l’impianto endoosseo da saldare si trova all’interno del perimetro dell’impianto sottoperiosteo, la tenuta è ancora maggiore perché riduce al minimo le possibilità di dislocamento (59).

6.Mettere in contenzione tra di loro un dente ed un impianto 
Una soluzione tecnica per stabilizzare immediatamente gli impianti fu proposta all’inizio degli anni ’80 da Arnoldo Dal Carlo, che la pubblicò nel 1983(60). Una struttura costituita da una cappa metallica inglobante una barra di titanio mette in connessione stabile l’impianto al dente adiacente. In questo modo l’impianto non può muoversi e si realizzano le migliori condizioni per la rigenerazione ossea includente. Questa tecnica è particolarmente adatta al trattamento dei settori distali, in cui l’azione della lingua e i traumi masticatori esplicano forze dislocanti particolarmente dannose.
In origine, si utilizzava una cappetta in titacrom inglobante un filo di titanio(60,61). Si passò presto alla fusione della cappetta in lega aurea, per questioni di migliore lavorabilità. A partire dal 2000, la struttura cappa-barra viene realizzata in un’unica fusione di titanio. La cappa viene cementata al dente adiacente appositamente preparato ed il filo viene saldato all’impianto. Nessuna parte della struttura deve entrare in contatto con l’antagonista né in occlusione statica, né in occlusione dinamica. Può essere utilizzata con impianti in titanio di qualsiasi forma, sia nell’arcata inferiore che nell’arcata superiore. 
Nel caso in cui il dente a cui la cappa viene fissata abbia rilevanza estetica, si può richiedere all’odontotecnico di rivestirla con un materiale del colore adeguato.
In casi particolari, si può proteggere l’impianto dai traumi endorali cementando nel canale di un dente adiacente un perno endocanalare di titanio e saldando l’impianto al dente mediante una barra.
Si tratta di una variante d’urgenza della cappa di A. Dal Carlo, molto utile in casi particolari(61). 

7.Ricostruire monconi degli impianti di altezza o forma inadeguata
Quest’applicazione della saldatura permette di correggere difetti di altezza e volume del moncone dell’impianto(61). La saldatura di un supporto di titanio al moncone dell’impianto dev’essere effettuata sempre in modo da far sì che il passaggio della carica elettrica sia concentrato in un solo punto. Per questo è consigliabile che di saldino al moncone dell’impianto le parti aggiuntive una alla volta. Prima di procedere alla saldatura, bisogna fresare vestibolarmente e lingualmente la parte emergente dell’impianto in modo da dargli lo spazio utile ad accogliere la barretta e far sì che non vi siano sovra-contorni. La barretta va saldata da ambedue le parti del moncone, adattando e saldando prima un pezzo da una parte, poi dall’altra. Bisogna sempre controllare che la saldatura avvenga tra barretta e impianto e non tra i pezzi di barretta tra di loro.
La preparazione del moncone deve essere fatta in modo che la corona protesica appoggi, con il bordo di finitura, sull’impianto e non sulla barretta saldata, in modo da non gravare i punti di saldatura di troppo carico.
La preparazione della struttura dev’essere preferibilmente eseguita in modo da consentire alla corona protesica di scaricare le forze sulla porzione d’impianto emergente dall’osso.
8.Ricostruire impianti fratturati
Un’applicazione estremamente utile della saldatrice è quella che consente il recupero degli impianti fratturati. Si evita al paziente la carotazione necessaria a togliere l’impianto e la delusione del fallimento. Si può infatti ricostruire il moncone residuo con l’aiuto della saldatrice ed andare a rendere così nuovamente funzionale l’impianto danneggiato (61).
Questa tecnica può servire anche per consentire al paziente di avere una protesi fissa in fase provvisoria.
Molto spesso, alla frattura del moncone dell’impianto si abbina una situazione di perfetta osteo-inclusione della parte endo-ossea, per cui l’eventuale estrazione comporta la carotazione di un blocco consistente di tessuto osseo. In queste condizioni, utilizzare la medesima sede ossea per inserire un nuovo impianto può essere complicato. Il recupero dell’impianto con la saldatrice evita quindi al paziente un intervento più pesante e demolitivo. L’impianto può anche essere semplicemente raso a zero a livello osseo e lasciato quiescente sottomucosa. Di norma, il paziente non ne deriva alcuna infiammazione, poiché l’impianto è in titanio, né alcuna sintomatologia.
9. Connettere impianti fratturati a nuovi impianti
Gli impianti fratturati possono servire da stabilizzazione per nuovi impianti, conferendo loro la stabilità immediata utile a favorire l’osteointegrazione. Trattandosi di titanio, la presenza di un monconcino emergente dalla mucosa non crea problemi igienici. Se la sua collocazione è intermedia tra i pilastri della protesi fissa, può essere protetto dalla travata.
10.Mettere in contenzione gli impianti tra di loro sottomucosa
Si tratta di un’applicazione esoterica della saldatura, che permette di avere impianti saldati tra di loro, ma monconi separati come se non vi fosse saldatura(61). La tecnica consiste nel posizionare gli impianti e poi procedere ad infilare sotto la papilla un filo di titanio, internamente rispetto agli impianti, e nel saldare così gli impianti tra di loro. In questo modo, possono essere eseguite corone protesiche singole con spazi tra di loro, ma con impianti in contenzione.
La tecnica è anche utile a risolvere quei casi in cui sia indicato mettere in contenzione gli impianti tra di loro, ma vi siano diastemi che sia indicato mantenere, per non modificare un aspetto che caratterizza l’estetica del paziente.
Altezza della barra di saldatura rispetto ai tessuti molli
Il filo o la barra di saldatura possono essere posizionati a diverse distanze dalle mucose. Dal punto di vista biomeccanico, la soluzione migliore è posizionare la barra di contenzione il più apicalmente possibile (saldatura “bassa”), perché il momento flettente gravante sull’impianto è così ridotto al minimo. Di conseguenza, come regola generale, si esegue una saldatura bassa e una protesi che ingloba la barra. 
Fanno eccezione i casi di atrofia posteriore molto marcata, in cui si ottengono i migliori risultati portando la saldatura più coronalmente, in modo da poter realizzare una protesi sciacquabile (saldatura “alta”) (13,14,62).
Considerazioni
L’analisi di alcuni studi statistici eseguiti dal nostro gruppo di ricerca ci inducono a suggerire l’impiego della saldatura endorale come presidio routinario quando si vogliano caricare subito gli impianti. La scelta se mantenerla nella protesi definitiva o rimuoverla prima di completarla dipende dalla valutazione dei requisiti biomeccanici della struttura implantare rispetto al contesto in cui va ad inserirsi. Alcuni protocolli di riabilitazione a lungo testati dal nostro gruppo di ricerca hanno dato risultati statistici molto confortanti. In particolare, come sopra riportato, uno studio su 193 impianti a vite e lama utilizzati in casi di atrofia superiore con tecnica Auriga ha dato risultati di competo successo e uno studio su 351 impianti cilindrici sottili in titanio inseriti nella mandibola inferiore atrofica ha dato risultati del 99% a 5 anni e del 95,8% a 10 anni. Resta il fatto che il corretto impiego della saldatura intra-orale comporta una adeguata curva di apprendimento.
Le numerose applicazioni accessorie hanno talora un valore transitorio, ma decisivo per migliorare la compliance del paziente.
La contenzione degli impianti è una soluzione la cui efficacia è ormai universalmente accettata dalla letteratura mondiale (63-65). In Italia e nei paesi latino-americani, si usa dagli anni ‘80. E’ un mezzo rapido e sicuro per unire gli impianti tra di loro. Per essere commercializzate a marchio CE, le saldatrici odierne sono sottoposte ad una serie di test di sicurezza. Va considerato che questo apparecchio permette di saldare tra di loro impianti in titanio di qualsiasi forma e marca.
Il fatto di eseguire una contenzione alla fine dell’intervento mediante saldatura consente di evitare di sollecitare gli impianti a breve distanza di tempo dall’intervento, svitando ed avvitando componenti che possono causare perdita di impianti. Anche con impianti sommersi, la saldatura è una procedura molto semplice ed efficace, ed ha il supporto documentato di 20 anni di esperienza clinica. La saldatura di impianti emergenti e sommersi per il carico immediato segue regole ben codificate osservando le quali si riduce al minimo la possibilità d’insuccesso. 

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